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Indennità di espropriazione anche per l’evasore totale ICI

7 Mar 2012 | ARCHIVIO STORICO

Corte costituzionale 22.12.2011 n. 338

La Corte Costituzionale, con sentenza 12-22 dicembre 2011, n. 338, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1 del D. Lgs. n. 504 del 1992, dal momento che, ritenendosi detta norma applicabile anche all’ipotesi di omessa dichiarazione ICI,  tale circostanza avrebbe comportato l’azzeramento dell’indennità di espropriazione per mancanza di un valore di riferimento.
La Corte è stata chiamata a pronunciarsi su tale questione dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali, nelle due ordinanze del 14 aprile 2011, iscritte ai nn.158 e 159 del 2011, avevano sollevato la citata questione di legittimità costituzionale “in riferimento agli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 ed all’art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nella parte in cui, in caso di omessa dichiarazione/denuncia ai fini dell’imposta comunale sugli immobili (ICI) o di dichiarazione/denuncia di valori assolutamente irrisori, non stabilisce un limite alla riduzione dell’indennità di esproprio, idoneo ad impedire la totale elisione di qualsiasi ragionevole rapporto tra il valore venale del suolo espropriato e l’ammontare della indennità, pregiudicando il diritto ad un serio ristoro, spettante all’espropriato”.
I Giudici della Corte di Cassazione, nell’affrontare e risolvere quella che nella stessa ordinanza di remissione viene definita questione di massima e di particolare importanza, vertente sul tema dei rapporti tra liquidazione dell’indennità di esproprio e soggezione all’ICI, assumono come punto di partenza, ai fini della propria valutazione, quanto sostenuto dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza interpretativa di rigetto n. 351 del 2000, precisando che l’interpretazione della  norma censurata offerta in tale pronuncia non può essere seguita nella parte in cui “ha ritenuto che l’indennità di espropriazione, nel caso di omessa dichiarazione ICI, potrebbe essere corrisposta soltanto dopo la regolarizzazione della posizione tributaria. Tale esegesi non sarebbe, infatti, consentita dalla lettera della disposizione e dall’interpretazione sistematica, anche perché renderebbe irrilevante l’originaria condotta del contribuente, recando altresì un vulnus al principio della ragionevole durata del processo”.
Inoltre, le Sezioni Unite della Corte, nelle citate ordinanze, hanno chiarito anche che l’orientamento giurisprudenziale di legittimità, formatosi a seguito di tale pronuncia, “ha prevalentemente seguito l’interpretazione fornita da questa Corte, nel senso che l’evasore totale non perde il suo diritto all’indennizzo espropriativo, ma è unicamente destinato a subire le sanzioni per l’omessa dichiarazione e l’imposizione per l’ICI che aveva tentato di evadere, potendo l’erogazione dell’indennità di espropriazione intervenire solo dopo la verifica che essa non superi il tetto massimo ragguagliato al valore accertato per l’ICI, a seguito della regolarizzazione della posizione tributaria. 
Secondo le SS.UU. è proprio questo orientamento che deve essere rivisto, nel senso che la lettera e la ratio della norma impongono di ritenere che essa si applichi all’evasore totale, senza alcuna possibilità di evitare il vulnus ai parametri costituzionali evocati. Pertanto, posta tale premessa, e ritenuta applicabile la norma sia ai casi di omessa dichiarazione a fini ICI, sia al caso di una dichiarazione per un valore irrisorio, il rimettente ha concluso che l’originario comportamento tenuto a fini fiscali influisce necessariamente sulla quantificazione dell’indennità di espropriazione.
All’esito di tale ricostruzione, la Corte Costituzionale, nel deliberare le censure prospettate dal remittente, ritiene, innanzitutto, necessario e doveroso richiamare la giurisprudenza della Corte EDU la quale ha individuato, in materia di indennità di espropriazione, un nucleo minimo di tutela del diritto di proprietà, garantito non solo dall’art. 42, terzo comma, della Costituzione, ma anche dall’art. 1 del primo protocollo addizionale della CEDU, in virtù del quale “l’indennità di espropriazione non può ignorare «ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene», né può eludere un «ragionevole legame» con il valore di mercato (da ultimo sentenza n. 181 del 2011 e prima ancora, sentenza n. 348 del 2007)”. In applicazione di tale principio, precisa la Corte, l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve realizzare:

  • in primo luogo, un «giusto equilibrio» tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e il requisito della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo;
  • in secondo luogo, nonostante che al legislatore ordinario spetti un ampio margine, “l’acquisizione di beni senza il pagamento di indennizzo” in ragionevole rapporto con il loro valore costituisce normalmente “un’ingerenza sproporzionata”.

Di conseguenza, sebbene il legislatore non abbia il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato, non può sottrarsi al “giusto equilibrio” tra l’interesse generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui.
Il principio così enucleato conserva validità anche con riferimento alle misure che lo Stato adotta in questa materia al fine di «assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende» di cui al capoverso dell’art. 1 del primo protocollo addizionale alla CEDU, norma che, interpretata anche alla luce dell’orientamento della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, attribuisce ampia discrezionalità ai legislatori nazionali nel definire le proprie politiche fiscali e, tuttavia, non consente di ritenere legittime misure di prevenzione e dissuasione fiscale qualora “comportino una eccessiva conseguenza sanzionatoria, come nel caso in cui possano giungere ad una sostanziale espropriazione senza indennizzo (sentenza 22 settembre 1994, n. 13616188, Hentrich c. Francia)”.
La Corte Costituzionale, quindi, nel rileggere la norma censurata alla luce di tali principi e nel rispetto dell’interpretazione offerta dalle Sezioni Unite civili, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, del D. Lgs. n. 504 del 1992 poichè la disposizione in esame viola sia l’art. 42, terzo comma, Cost., sia l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale alla CEDU.
La disciplina stabilita dall’art. 16 non è, infatti, compatibile con il citato nucleo minimo di tutela del diritto di proprietà, in quanto non contempla alcun meccanismo che, in caso di omessa dichiarazione/denuncia ICI, consenta di porre un limite alla totale elisione di tale indennità, garantendo comunque un ragionevole rapporto tra il valore venale del suolo espropriato e l’ammontare della indennità”.
Nell’argomentare la propria decisione, la Corte aggiunge, inoltre, che “tale vulnus si determina anche per il caso di dichiarazione/denuncia di valori irrisori, o di valori che potrebbero condurre comunque ad elidere il necessario vincolo di ragionevolezza e proporzionalità fra il comportamento tributario illecito e la sanzione, e quindi la pronuncia di illegittimità costituzionale deve necessariamente riguardare anche siffatto profilo della disciplina”. Comunque, per i giudici della Corte, “resta ferma la discrezionalità del legislatore di stabilire sanzioni che, eventualmente, incidano anche sull’indennità di espropriazione, purchè non realizzino una sostanziale confisca del bene, sacrificando illegittimamente il diritto di proprietà all’esclusivo interesse finanziario leso dal contribuente, tenuto conto della diversità di procedimenti e di garanzie che sovrintendono all’accertamento tributario ed alle relative sanzioni, peraltro già autonomamente previste dal d.lgs. n. 504 del 1992”.